Dolore nell’adulto

Secondo la IASP (International Association for the Study of Pain) il dolore è “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, associata ad un danno tessutale effettivo o potenziale o comunque descritta come tale”.
Il dolore, dunque, è sempre soggettivo ed ogni individuo ne apprende il significato per mezzo delle proprie esperienze cognitive correlate ad una lesione (“danno tessutale”) durante i primi anni di vita.
Essendo un’esperienza spiacevole il dolore non è quindi solo un fenomeno sensoriale; esso è il risultato della sommatoria di una componente percettiva (la nocicezione) che costituisce la modalità sensoriale che permette la ricezione ed il trasporto al sistema nervoso centrale (midollo spinale e cervello) di stimoli potenzialmente lesivi per l’organismo e di una componente cognitiva (del tutto personale) rappresentata dallo stato psichico collegato ad una sensazione spiacevole.
Precisando ulteriormente possiamo affermare che la componente percettiva è costituita da un circuito di tre (o più di tre) cellule nervose (neuroni) che convoglia lo stimolo doloroso dalla sede di percezione al cervello.
La componente cognitiva, invece, è responsabile della valutazione critica dello stimolo doloroso e coinvolge la corteccia cerebrale ed in particolare una ben definita rete associativa di cellule nervose (la formazione reticolare) e consente di discriminare l’intensità, le caratteristiche qualitative ed il punto di provenienza dello stimolo nocivo.
È consuetudine classificare il dolore come acuto e cronico in base alla persistenza temporale.
Il dolore acuto è legato alla presenza della lesione tessutale, ha un momento di insorgenza ed un momento di risoluzione. Il dolore cronico invece, una volta insorto, tende a proseguire indefinitamente nel tempo.
Il dolore acuto è finalistico, è un sintomo vitale giacché rappresenta un segnale d’allarme per una lesione tessutale in atto o potenziale ed è essenziale per evitare un pericolo o limitare un danno all’organismo.
Il dolore cronico non è finalistico e deve la sua caratteristica di proseguire nel tempo al fatto che la causa che lo ha generato non è più risolvibile; inoltre le caratteristiche biochimiche e fisiologiche di generazione e di mantenimento sono del tutto diverse dal dolore acuto.
Il dolore cronico è dunque una malattia a sé stante che può legarsi a tre situazioni diverse:

– malattia cronica in cui il dolore è strettamente legato alla malattia stessa;
– malattia cronica in cui il dolore deriva da meccanismi fisiopatologici propri oltre che da quelli generati
dalla malattia;
– dolore prodotto da meccanismi completamente estranei alla causa della malattia;

Una volta distinto il dolore in acuto e cronico è importante valutarne le caratteristiche in modo da stabilire se esso derivi dal nocicettore (il recettore specifico in grado di trasformare il segnale fisico doloroso in segnale elettrico nervoso), oppure da un’alterazione funzionale del sistema nervoso legata ad origini diverse.
Nel primo caso si parla di dolore nocicettivo, nel secondo di dolore neuropatico.

Essendo completamente diverse le cause, è facilmente comprensibile come le terapie possano e debbano essere diverse al fine di risultare efficaci.
Lo stato di perdurante sofferenza nel tempo di quanti soffrono di dolore cronico dipende spesso da una diagnosi non corretta del problema presente e dalla somministrazione di una cura inadeguata.
Il dolore cronico, se precisamente valutato e identificato da una medico esperto in terapia del dolore, nella maggioranza dei casi può essere notevolmente alleviato e non essere più una “inesorabile condanna che sconvolge l’esistenza”, come ebbe a dire un paziente.
Prof. Gianvincenzo D’Andrea,
Vicepresidente Fondazione ISAL

mal di testa

Mal di testa

Nel mondo la cefalea colpisce centinai di milioni di individui e rappresenta pertanto uno dei problemi sanitari di maggiore impatto individuale e sociale, e costituisce un importante fattore di invalidità soprattutto per il sesso femminile che risulta maggiormente colpito con un rapporto di prevalenza donna/uomo 2:1, 3:1.
Dal punto di vista classificativo il mal di testa presenta forme primarie e forme secondarie;
le cefalee primarie includono quelle che originano da disfunzioni intrinseche del sistema nervoso, spesso di natura genetica, e predispongono ad una aumentata vulnerabilità agli attacchi di mal di testa. Le cefalee secondarie possono originare da più di trecento condizioni cliniche tra le quali sono più frequenti i disturbi vascolari celebrali, le neoformazioni intracraniche, le turbe ipertensive/ipotensive, le infezioni, i disturbi metabolici endocrini e le patologie del tratto celebrale della colonna vertebrale.

Nell’ambito delle cefalee primarie sono raggruppate:

– l’emicrania

– con aura

– senza aura

– cronica

– la cefalea a grappolo

– la cefalea muscolo-tensiva

1) L’emicrania è un disturbo neurofisiologico complesso, caratterizzato da forme episodiche e progressive di mal di testa associato a manifestazioni neurologiche o non neurologiche che possono precedere, seguire o presentarsi contestualmente alla comparsa del dolore. In genere il dolore è localizzato in una metà del cranio ma a volte è esteso a tutto il capo; la nausea, il vomito, disturbi della visione con fastidio alla luce sono spesso presenti.
L’emicrania, si è già detto, è classificata in tre maggiori sottotipi:
Emicrania con aura: sintomi premonitori si presentano da 30 minuti ad un’ora prima dell’insorgenza del mal di testa;
Emicrania senza aura: l’attacco non è preceduto da sintomi premonitori;
Emicrania cronica: si ha quando si registrano episodi di cefalea, anche a frequenza ravvicinata, fino a 15 o più ogni mese. Quest’ultimo sottotipo è una condizione particolarmente invalidante che può associarsi a disturbi psichiatrici anche importanti quali depressione, ansia, attacchi di panico, disturbo bipolare, nevrosi ossessivo-compulsiva.
Nell’80-90% dei casi i sofferenti di emicrania presentano una familiarità e il sesso femminile è maggiormente colpito. Le crisi emicraniche hanno una durata da 4 a 72 ore e sono spesso accompagnate da sintomi neurovegetativi e cognitivi. Sono stati riconosciuti diversi fattori capaci di scatenare le crisi di emicrania in individui particolarmente predisposti, essi sono: le fluttuazioni ormonali (periodo mestruale, uso di contraccettivi orali, o terapie sostitutive), i cambiamenti metereologici, alcuni tipi di alimenti, pasti saltati o consumati in fretta, sonno eccessivo o ridotto riposo notturno, ed infine stress psicofisico.

2) La cefalea a grappolo è relativamente meno frequente rispetto all’emicrania e alla cefalea muscolo-tensiva ed affligge prevalentemente gli uomini con un rapporto 3:1 rispetto alle donne; può avere una durata da 30 a 120 minuti e gli attacchi possono ripetersi fino a 6 volte nell’arco della giornata. Il dolore insorge prevalentemente durante il sonno, è localizzato più spesso intorno ad un’orbita oculare ed è accompagnato da lacrimazione, arrossamento degli occhi, diminuzione del diametro della pupilla dal lato dolente ed è presente spesso un abbondante produzione di muco nasale.

3) La cefalea muscolo-tensiva, descritta da chi ne soffre come un mal di testa ottuso e non pulsante, è tipicamente bilaterale e fra i diversi tipi di mal di testa sembra avere come causa esclusivamente fattori ambientali. Sembra che trovi origine generalmente da situazioni di conflitti emotivi e stress psico-sociali ma la relazione causa/effetto non è stata sufficientemente chiarita. In ogni caso quando le manifestazioni episodiche non sono trattate in modo adeguato (e ciò vale per tutti i tipi d cefalea!), il rischio della cronicizzazione del problema è moto elevato.

La terapia dei diversi tipo di cefalea presuppone una precisa conoscenza delle diverse forme esistenti e richiede una particolare competenza nel trattamento delle diverse tipologie. Affinché i pazienti possano avere sicuri benefici dai trattamenti disponibili, è necessaria una diagnosi precisa delle manifestazioni dolorose, come pure è importante determinare la frequenza, la severità degli attacchi e l’eventuale presenza o assenza di disturbi psichiatrici neurologici, neurovegetativi etc.
Solo attraverso una accurata indagine anamnestica ed una scrupolosa valutazione dello stato clinico, il medico specialista in terapia del dolore procederà alla formulazione della terapia più indicata e potrà far ricorso a farmaci e/o a trattamenti non farmacologici.
Comunque, in considerazione della evidente complessità del problema, risulta utile per quanti sono affetti da cefalea rivolgersi ai numerosi centri presenti sul territorio nazionale nei quali viene affrontato, con la maggiore competenza possibile, il problema.

Prof. Gianvincenzo D’Andrea,
Vicepresidente Fondazione ISAL

mal di schiena

Mal di schiena

Il dolore lombosacrale (DLS, mal di schiena) rappresenta la seconda causa di disabilità nel mondo occidentale, preceduta dalla cefalea e seguita dal dolore cervice brachiale.
Esso origina dalle strutture anatomiche vertebrali e/o paravertebrali nella regione lombosacrale (parte inferiore della schiena) e può estendersi a tutta l’area dei glutei.
In alcuni casi un dolore radicolare (per irritazione e/o compressione di una radice nervosa) esteso a tutto un arto inferiore può accompagnarsi al DLS, ma tale condizione va considerata come un’entità separata con una differente fisiopatologia (Lombosciatalgia o Sciatica).
Il dolore lombosacrale rappresenta la quinta causa di richiesta di una visita medica negli USA e nel mondo occidentale soffre di questo problema dal 50% all’80% della popolazione adulta.
Esso rappresenta la causa principale di disabilità e nella popolazione attiva determina una perdita rilevante di ore di lavoro, con notevoli costi diretti ed indiretti stimati negli USA in 50 miliardi di dollari per anno.
Il dolore lombosacrale, pur presentandosi inizialmente in forma acuta con possibilità di risoluzione entro sei settimane, nel 72% dei casi può divenire persistente e può portare a una condizione di invalidità nel 12% dei casi.
Numerosi sono i fattori che possono favorire l’insorgenza del dolore lombosacrale; essi sono rappresentati principalmente dalla ridotta attività fisica, l’attività lavorativa sedentaria, l’età maggiore a 55 anni e l’obesità.
Tra i fattori predisponenti alla cronicizzazione del dolore lombosacrale vanno ricordati: la presenza di un dolore di tipo sciatalgico, la sedentarietà, la rigidità vertebrale, la personalità ansioso-emotiva.
Il dolore lombosacrale può avere origini meccaniche o non meccaniche; nel primo caso insorge per sollecitazioni eccessive a carico delle strutture anatomiche vertebrali e paravertebrali (ossa, dischi intervertebrali, legamenti e muscoli); nel secondo caso può derivare da tumori, infezioni ed infiammazione delle medesime strutture.
Un’anamnesi precisa e una visita scrupolosa consentono agevolmente di stabilire la tipologia del dolore presente (nocicettivo e/o neuropatico).
Anche nei casi più severi di dolore lombosacrale di origine meccanica si registrano variazioni di intensità durante l’arco della giornata, ma quando il dolore è lancinante, stabile ed addirittura più forte durante le ore del riposo notturno, il sospetto che possa dipendere da una causa tumorale o infettiva è molto alto.
In ogni caso non appena formulata l’ipotesi diagnostica del caso, il medico potrà suggerire il programma terapeutico più indicato.
Per quanto riguarda la terapia farmacologica nel dolore lombosacrale, appaiono indicati il paracetamolo o i FANS, associati ai miorilassanti, nella fase acuta, mentre nelle forme croniche sono da preferirsi il paracetamolo (e non i FANS per i noti effetti avversi!) e gli oppioidi.
In alcuni casi in cui è stata precisamente individuata l’origine meccanica del dolore lombosacrale, si può fare ricorso alla terapia infiltrativa (epidurale, blocco delle faccette articolari, infiltrazione di legamenti e trigger point).
Una blanda mobilizzazione (anche nel dolore lombosacrale acuto) si è dimostrata capace di favorire un più rapido recupero rispetto al riposo a letto durante le ore diurne.
Infine solo nell’1% dei casi di dolore lombosacrale si rende necessario il ricorso all’intervento da parte dello specialista neurochirurgo.
In conclusione un’attenta valutazione del problema da parte di un medico esperto in terapia del dolore consente di raggiungere l’obbiettivo più atteso dai pazienti (il sollievo dal dolore), utilizzando un piano terapeutico che può far uso anche di diverse modalità di cura.

Prof. Gianvincenzo D’Andrea,
Vicepresidente Fondazione ISAL

dolore pelvico 262x233

Dolore pelvico cronico

Il dolore pelvico cronico viene definito come uno stato doloroso “cronicizzato” (che duri per un periodo superiore a tre mesi) e che interessa, in parte o tutta, la porzione corporea contenuta nel bacino, sia che si tratti di strutture dermo-epidermico- sottocutanee, muscolo-scheletriche e fasciali, ovvero gli organi pelvici; tale sintomatologia dolorosa può presentarsi con fenomeni acuti che si inseriscono su uno stato di dolenzia perenne. Il dolore pelvico, quando non ha un’ovvia origine da una lesione superficiale, proviene dagli spazi interni sottocutanei relativi al bacino e pertanto può originare dagli organi dell’apparato genitale, del basso tratto urinario o intestinale e dalle strutture neuro-muscolari, vascolari e osteoligamentose che vi sono situate.
Il dolore produce il maggior impatto sul paziente e può essere collegato al riempimento o svuotamento degli organi pelvici oppure essere avvertito in modo continuo o scatenato dalla pressione di trigger-point (punti precisi di scatenamento del dolore). Può essere caratterizzato dal tipo, frequenza, durata, da fattori precipitanti o di sollievo e dalla sede.
Termini come stranguria, spasmo vescicale e soprattutto disuria sono difficili da definire e di incerto significato, e non dovrebbero essere usati a meno che si stabilisca per essi un preciso significato. La sintomatologia, quindi, può essere localizzata in uno qualsiasi dei distretti che formano il sistema pelvi-perineale, oppure in uno solo di essi. Per praticità qui si schematizzerà la singola localizzazione; pertanto potranno presentarsi i seguenti quadri clinici:
Il dolore vescicale 


E’ percepito a livello sovrapubico o retropubico, e gradualmente aumenta con il riempimento vescicale e può persistere dopo minzione.
Tale sensazione porta solitamente ad incremento della frequenza minzionale (pollachiuria).

Il dolore uretrale

E’ percepito a livello uretrale. Nel maschio può essere localizzato lungo l’asta peniena, a livello scrotale o perineale; nella donna, invece, esso è localizzato al meato esterno (subito al di sotto del clitoride), ovvero sulla parete vaginale superiore, per appena 3 cm. Il dolore è presente indipendentemente dalla minzione, seppur si intensifica ad ogni atto urinario.

Il dolore vulvare


E’ avvertito attorno ed all’interno della vulva. Può facilmente essere confuso con la vulvodinia, o la clitoridodinia, ma in entrambe queste condizioni è l’andamento nel tempo che definisce il quadro clinico.

Il dolore vaginale


E’ sentito all’interno dell’introito. Anche in questo caso è facile considerare tale quadro in tutto simile alla vulvodinia.

Il dolore scrotale

Può essere localizzato al testicolo, all’epididimo, al funicolo o alla cute scrotale.

Il dolore perineale


E’ avvertito nella donna tra la forchetta posteriore e l’ano e nel maschio tra lo scroto e l’ano.

Il dolore pelvico


E’ meno definito degli altri ed è meno chiaramente legato al ciclo minzionale o alla funzione intestinale o sessuale e non è localizzato ad alcun singolo organo pelvico. Può essere ciclico (mestruale) ed allora bisogna considerare una causa ormonale ginecologica.

La nevralgia del pudendo

Questo tipo di dolore merita un inquadramento a parte. In estrema sintesi si può identificare con un bruciore vaginale, vulvare o scrotale e perineale che si accompagna a dolorabilità lungo il decorso del nervo pudendo. Recentemente sono state proposte 5 caratteristiche essenziali per la diagnosi di neuropatia del pudendo (criteri di Nantes):

dolore nella regione innervata dal pudendo;
peggioramento del dolore con la posizione seduta;
nessun risveglio notturno per il dolore;
assenza di deficit sensitivo all’esame obbiettivo;
rimozione dei sintomi con il blocco anestetico del pudendo.

Le sindromi dolorose pelviche sono tutte croniche. Il dolore è il sintomo principale, ma spesso si associano sintomi del basso tratto urinario, intestinali, sessuali o ginecologici. Il sintomo doloroso prevalente deve guidare nella definizione della sindrome.
La sindrome dolorosa pelvica
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore pelvico associato a sintomi suggestivi di disfunzione del basso tratto urinario, sessuale, intestinale o ginecologica.
La sindrome della vescica dolente o dolorosa (ICS) o del dolore vescicale (ESSIC)
La definizione più recente di Sindrome del dolore vescicale (SDV) dell’ESSIC si richiama alla classificazione del dolore urogenitale della IASP. Il dolore sovrapubico è solitamente associato al riempimento vescicale e si accompagna ad altri sintomi come l’urgenza, la pollachiuria, la nicturia, in assenza di dimostrabile infezione urinaria o altra patologia manifesta come la calcolosi vescicale, il carcinoma uroteliale in situ e l’endometriosi. Sia l’ICS che l’ESSIC preferiscono questi termini rispetto a cistite interstiziale, che è una diagnosi specifica e richiede conferma dal riscontro delle caratteristiche cistoscopiche e istologiche. La diagnosi è pertanto più di esclusione di malattie confondenti e curabili diversamente. Il sintomo «urgenza» presente nella SDV, ovvero necessità urgente di mingere per la presenza di dolore sovrapubico, si differenzia da quello definito dall’ICS che si riferisce ad un improvviso ed irrefrenabile desiderio di mingere che può portare all’incontinenza in breve tempo.

La sindrome dolorosa uretrale
E’ rappresentata da ricorrenti episodi di dolore uretrale, di solito durante minzione, con pollachiuria e nicturia in assenza di documentabile infezione urinaria o altra patologia manifesta.

La sindrome dolorosa vulvare
E’ rappresentata da ricorrenti episodi di dolore vulvare che è o legato al ciclo minzionale o associato a sintomi suggestivi di disfunzione urinaria o sessuale. Non è dimostrabile infezione o altra patologia manifesta. L’ICS suggerisce di non usare il termine vulvodinia, perché porta a confusione tra il singolo sintomo e la sindrome; inoltre nella vulvodinia il quadro è più complesso poiché non si associa a modifiche funzionali e non è costante nella ricorrenza clinica.

La sindrome dolorosa vaginale
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore vaginale associato a sintomi suggestivi di disfunzione urinaria o sessuale. Non è dimostrabile infezione vaginale o altra patologia manifesta.

La sindrome dolorosa peniena
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore riferiti al pene. Possono associarsi sintomi di disfunzione sessuale.

La sindrome dolorosa scrotale
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore scrotale più o meno localizzato al didimo, epididimo o funicolo e eventualmente associato a sintomi suggestivi di disfunzione urinaria o sessuale. Può essere secondario a vasectomia. Non è dimostrabile una orchiepididimite o altra patologia manifesta.

La sindrome dolorosa perineale
E’ rappresentata da persistente o ricorrenti episodi di dolore perineale che è o legato al ciclo minzionale o associato a sintomi suggestivi di disfunzione urinaria o sessuale.

L’origine, le cause e la patofisiologia del dolore pelvico cronico rimangono spesso sconosciute. Alterazioni aspecifiche degli organi bersaglio e del sistema nervoso possono essere riscontrate senza però essere del tutto patognomoniche, cioè non hanno caratteri di specificità e di univoca responsabilità del quadro clinico. Non devono comunque essere presenti evidenze di infezione, cancerizzazione o neuropatie specifiche. Tuttavia il dolore cronico o persistente può indurre cambiamenti del sistema nervoso centrale che possono mantenere la percezione del dolore in assenza di uno stimolo responsabile. Questi cambiamenti possono amplificare la percezione di stimoli non dolorosi fino a renderli dolorosi (allodinia; disestesia termo-tattile) oppure possono accentuare la sensazione di stimoli poco dolorosi (iperalgesia).
I muscoli pelvici possono diventare dolorosi con comparsa di punti scatenanti (trigger-point). Inoltre può manifestarsi una anomala attività efferente (che riguarda, cioè, l’azione comandata dal SNC sugli organi periferici) che può produrre alterazioni funzionali come sintomi dell’intestino irritabile o contratture della muscolatura perineale, associati o meno ad alterazioni strutturali e ultrastrutturali come una Flogosi Neurogenica (con conseguente Dolore Neuropatico). Da tempo, infatti, è noto il circolo vizioso che si innesca alla comparsa di dolore profondo e continuativo: infatti la percezione del dolore attiva le vie nervose che innescano una reazione involontaria di contrattura muscolare; ad essa si associa uno strozzamento dei vasi arteriosi intramuscolari con riduzione parziale dell’apporto di ossigeno; l’ipossia relativa è in grado di attivare i nocicettori tissutali che sono estremamente sensibili alle variazioni di ossigeno; l’attivazione dei nocicettori induce, per via riflessa, una ulteriore risposta contrattiva sulla muscolatura che rimette in moto il circolo vizioso del dolore, contrazione, ipossia, nocicettori, contrazione.

La diagnosi è principalmente basata sui sintomi e sull’esclusione di patologie conosciute che possono generarli. Pertanto la gravità della malattia, la sua progressione e la risposta ai trattamenti può essere valutata solo attraverso questionari sintomatologici validati o strumenti di valutazione dell’intensità dei sintomi.

Il trattamento si avvale di numerose modalità che spesso devono essere associate per migliorare i risultati (terapia multimodale). E’ purtroppo solo sintomatico e pertanto deve iniziare da quello più conservativo e privo di effetti collaterali che consenta di alleviare i sintomi e raggiungere una accettabile qualità di vita. L’impossibilità di raggiungere questi obiettivi – o quando la sintomatologia è particolarmente intensa – deve fare cambiare strategia ed adottare trattamenti sempre più impegnativi, fino a quelli chirurgici, in particolare nelle forme più avanzate.
Fra i farmaci maggiormente usati vi sono: analgesici, oppioidi, narcotici, antinfiammatori, antidepressivi triciclici (amitriptilina), anti-istaminici anti H1 e anti H2, inibitori della ricaptazione della serotonina, Glicosaminoglicani (GAG) tipo Eparina ovvero Pentosanpolifosfato; terapia farmacologica topica; infiltrazione locale con Tossina Botulinica; Stimolazione Elettrica (SANS); e perfino chirurgia maggiore.
In presenza di ipertono perineale e/o trigger point vaginali o rettali sia nella femmina che nel maschio, è stato dimostrato un miglioramento della sintomatologia dolorosa e di urgenza/frequenza fino all’83% dei casi trattati con multiple sedute di compressione e stiramento manuale dei fasci muscolari individuati contratti e dolenti. Anche il biofeedback elettromiografico si è dimostrato efficace nel ridurre l’ipertono perineale dopo sessioni di addestramento alla contrazione e rilasciamento del pavimento pelvico di pazienti maschi con dolore pelvico cronico.

Dott. Felice Nisticò,
Urologo, Urodinamista, Uro-ginecologo
Responsabile Servizio di Urodinamica e Uro-Riabilitazione
Azienda Ospedaliera “Pugliese – Ciaccio” – CATANZARO –
S.O.C. di Urologia

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Nevralgia trigeminale

Per nevralgia trigeminale si intende una sindrome clinica caratterizzata da improvvisi e ripetuti attacchi di dolore facciale localizzato in una delle tre branche del nervo trigemino.

Presenta una prevalenza di 1,5 casi ogni 10000 abitanti ed ha un picco di frequenza fra i 50/70 anni di età.
Nei casi di nevralgia trigeminale tipica (NT 1 sec Burchiel) si alternano periodi di assoluto benessere alle crisi dolorose che possono essere scatenate da alcuni stimoli (triggers), nella/ed intorno alla bocca, assolutamente comuni, come il mangiare, radersi, lavarsi i denti.

Nei casi di nevralgia trigeminale atipica (NT2 sec Burchiel) il dolore è continuo/subcontinuo caratterizzato da sensazione di bruciore e gli attacchi di nevralgia sono più rari.
Nella maggioranza dei casi la nevralgia trigeminale è causata da un conflitto neuro vascolare, ovvero dalla presenza di un vaso (più frequentemente un arteria) in stretto contatto con il nervo trigemino. Il contatto e la conseguente trasmissione della pulsazione del vaso inducono una demielinizzazione (perdita del normale rivestimento) del nervo, con conseguente innesco di un “corto circuito” della normale conduzione dello stimolo nervoso ed innesco del dolore parossistico.

La nevralgia trigeminale può essere però anche secondaria (circa il 10% dei casi) alla presenza di lesioni espansive (tumori) o malformazioni vascolari poste nell’angolo ponto cerebellare comprimenti il nervo, o secondaria alla presenza di placche in pazienti con sclerosi multipla.
La diagnosi della nevralgia trigeminale è, dunque, in primis clinica ma non può prescindere dalla risonanza magnetica per escludere patologie secondarie e confermare allo stesso tempo la presenza di un conflitto neurovascolare.

La prima linea di trattamento di questa malattia è di tipo medico/farmacologico e si fonda sull’uso di farmaci antiepilettici (carbamazepina, gapentin), miorilassanti, antidolorifici.

Nel corso del tempo, purtroppo, i farmaci tendono a perdere efficacia e si stima che circa il 60 % dei pazienti debba fare ricorso allo specialista neurochirurgo.

I trattamenti chirurgici possono essere grossolanamente suddivisi in due gruppi: procedure “fisiologiche/non distruttive” e procedure “distruttive” sul nervo.

Descritta per la prima volta nel 1967 da Jannetta la decompressione micro vascolare è da considerarsi il trattamento chirurgico di prima scelta in pazienti affetti da nevralgia trigeminale.
L’intervento consiste nel liberare il nervo dalle aderenze e dalla compressione dei vasi ponendo una sorta di “distanziatore” tra essi. In tal modo il nervo viene anatomicamente preservato in maniera “fisiologica”.
Questa procedura riesce a produrre l’immediata scomparsa del dolore nel 90 % dei casi ed a distanza di 10 anni è presente un buon controllo dei sintomi nel 75% dei pazienti.
Le procedure “distruttive” si basano sul principio di produrre una lesione parziale del nervo trigemino al fine di diminuire l’intensità del dolore. Possono essere effettuate per via percutanea (comprimendo o ledendo il nervo con radiofrequenze) o tramite radiochirurgia. Presentano rischi chirurgici leggermente inferiori ma allo stesso tempo inferiori tassi di remissione immediata (70%) e di controllo dei sintomi a 10 anni (60%).

In conclusione, in caso di nevralgia trigeminale, una volta verificato l’insuccesso della terapia con i farmaci, bisogna subito mettere in atto una terapia chirurgica, l’unica in grado dai dare sollievo al paziente evitando, come purtroppo si rileva frequentemente, il protrarsi di una sofferenza inutile.

Dott. Marcello D’Andrea
Neurochirurgo, esperto nel trattamento della Nevralgia Trigeminale
Ospedale Bufalini, Cesena